Scrivo dalla vicina Spagna, per essere precisi, da Barcellona. Un posto meraviglioso per vivere se ami il mare, l’arte, la vita all’aria aperta, il clima mediterraneo e… se hai un figlio o una figlia transgender. Non che di per sé non sia un’esperienza incredibile avere un figlio o una figlia che vive il proprio genere in modo creativo, ma sicuramente farlo qui oggi sarebbe molto meno faticoso che farlo in Italia. Senza voler negare che anche in Catalunya le difficoltà ci siano, e che la strada da percorrere sia ancora lunga (in termini di rivendicazioni politiche e di stigma sociale), è impossibile non dare rilievo al percorso fino ad oggi compiuto dai genitori dei minori transgender, dalle istituzioni e dai collettivi trans e a come di fatto questo lavoro stia contribuendo a creare dei presupposti di accettazione della realtà trans fino a poco tempo fa impensabili. Il risultato a mio avviso più importante di questo lavoro sinergico è stato l’allineamento del modello di assistenza sanitario catalano alle esigenze delle persone transgender e transessuali, che da anni rivendicano la depatologizzazione di tutte quelle esperienze identitarie in cui il genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita. Se politicamente si chiede ancora a gran voce una legge nazionale sull’identità di genere che includa i minori transgender e che depatologizzi la transessualità, di fatto in Catalunya i processi di cambiamento che riguardano i minori sono in atto da tempo e hanno permesso, non solo di creare una struttura efficace di supporto per le persone che lo necessitano, ma di farlo partendo da una visione che può essere certamente considerata innovativa. In una recente intervista infatti, la direttrice del Servizio Catalano di Attenzione alla Salute, sosteneva quanto il suo dipartimento abbia da tempo cambiato l’approccio filosofico rispetto alla transessualità e come si sia voluto creare un modello di assistenza integrale per le persone transessuali, basato su un paradigma non più esclusivamente bio-medico ma soprattutto psico-sociale. Questo approccio nella pratica si traduce nell’esistenza da 4 anni a questa parte dell’Unitat de Transit di Barcellona, un centro pubblico che offre sostegno a chiunque lo richieda in materia di identità di genere. La caratteristica principale di questo centro, che da quando è nato ha già dato assistenza a più di 700 adulti e 150 minori, è quello di offrire un servizio di supporto che non sia solo medico (analitico, clinico), ma di più amplio spettro, dando priorità al vissuto identitario della persona che ne fa richiesta e al suo intorno sociale (famiglia, lavoro, scuola, etc.). Al centro dell’attenzione di un team formato da medici, psicologi e assistenti sociali non c’è la disforia di genere (che di per sé non esiste, se non come conseguenza di una situazione di rifiuto sociale vissuto dalle persone con genere non conforme), ma la persona la cui esperienza va valutata singolarmente, tenendo conto dei suoi processi di identificazione e di rivendicazione. Il sostegno medico (pubblico) viene garantito, ma è la persona interessata a decidere quale percorso di transizione intraprendere (o non intraprendere) per sentirsi bene con il proprio corpo. Per quanto riguarda i minori poi, un importante punto di riferimento per i genitori è l’associazione Chrysallis. Questa associazione, fondata circa 4 anni fa da un ridottissimo gruppo di genitori di bambini con fluidità di genere, conta oggi in tutta la Spagna circa 450 iscritti (solo in Catalunya, nell’ultimo anno sono passati da 9 a quasi 60 famiglie!). Il conforto e il supporto che questa associazione di genitori riesce a garantire alle persone che si trovano in una situazione di sconforto, solitudine e di grande paura in seguito alla rivendicazione da parte del proprio figlio o figlia di essere riconosciuto nel genere opposto rispetto al sesso assegnato alla nascita, è enorme. In una intervista, la madre di una bimba di 4 anni, mi raccontava quanto fosse stato doloroso per lei ammettere che il suo bambino fosse in realtà una bambina, dopo che questa le aveva chiesto insistentemente di essere riconosciuta come tale non solo dalla propria famiglia, ma anche dagli amici e dai compagni di scuola. Mi raccontava come fosse rimasta chiusa in casa, piangendo per un mese, fino a quando era entrata in contatto con il gruppo locale dell’associazione di genitori di bambini transgender. La serenità di questi genitori, le loro conoscenze, il racconto delle loro esperienze le aveva permesso di comprendere, non solo che quello che stava capitando a sua figlia era qualcosa che capitava ad altre persone intorno a lei, ma anche che affrontarlo lontano dai pregiudizi e dalla sofferenza era un percorso viabile. Questa associazione, oltre a rappresentare un punto di riferimento importante per coloro che hanno figli con fluidità di genere, sta facendo un incredibile lavoro di informazione e di educazione rispetto alla transessualità infantile attraverso documentari e i principali programmi televisivi nazionali e locali. La visibilizzazione del fenomeno dei bambini con un genere non conforme ha dato inizio a un processo di normalizzazione della transessualità i cui risultati si sono visti chiaramente qualche settimana fa quando l’associazione cattolica spagnola Hazte Oir ha promosso un’iniziativa piuttosto singolare, inviando un autobus per tutto il Paese con il messaggio, a caratteri cubitali “I bambini hanno il pene, le bambine hanno la vulva. Non lasciarti ingannare!”. Questo messaggio, che afferma nettamente la prospettiva biologista dell’interpretazione del genere da parte dell’associazione in questione, ha suscitato nella società spagnola un’ondata di indignazione incredibile e, per certi versi, inattesa. Una risposta contundente e risoluta non è infatti giunta solo dal mondo dall’associazionismo e dalle piattaforme sociali che tutelano i diritti e la dignità delle persone implicate, ma dall’intera opinione pubblica. La notizia, ripresa da tutti i principali giornali nazionali e locali, è stata riportata sempre sottolineando quanto il messaggio fosse lesivo nei confronti delle persone trans e offensivo per tutti coloro, soprattutto bambini, che vivono la propria identità di genere in modo alternativo. Anche la risposta delle istituzioni è stata immediata. I sindaci e le sindache delle principali città spagnole ne hanno vietato il passaggio o lo hanno subordinato a una modifica sostanziale del messaggio indicato. Una delle principali trasmissioni del Paese (El Intermedio, paragonabile alla nostra Striscia la Notizia) per una settimana intera ha dedicato gran parte dello spazio del suo programma all’offensiva contro l’autobus transfobico, facendo circolare per le strade di Madrid, Barcellona, Valencia, etc. un autobus con la scritta “la identità di genere non si sceglie. Non lasciare che altri la decidano per te.” Se questa è stata la risposta mediatica alla provocazione di Hazte Oir, sorprendente è stata la risposta parallela della gente comune. I commenti che ho potuto raccogliere in strada, davanti alla scuola, al campo di rugby dove mio figlio si allena, sono stati tutti di sostegno rispetto alle persone con un genere diverso rispetto al sesso e in particolare verso i bambini e le loro famiglie. L’effetto boomerang insomma, dell’iniziativa transfobica, è stato di portata storica. Che i pregiudizi siano ancora presenti e che la transfobia sia dietro l’angolo resta ahimè un dato di fatto. Ma la percezione che si ha stando qui è che, quanto meno le istituzioni, i collettivi e le persone che vivono direttamente o indirettamente un’esperienza di genere alternativa, condividano un unico obbiettivo: quello di concentrare i propri sforzi per contribuire a quella trasformazione sociale che ha come presupposto di base il riconoscimento della categoria di genere non come qualcosa di rigidamente ancorato a una struttura binaria, ma come uno spettro di possibilità all’interno del quale ognuno è libero di trovare il proprio spazio e di sentirsi normale.
Michela Mariotto Antropologa culturale, attualmente dottoranda all’Università Autonoma di Barcellona – Progetto di ricerca “Bambini Transgender o con fluidità di genere. Analisi della narrativa sui percorsi di genitorialità intrapresi rispetto ai vissuti identitari dei propri figli e nella relazione con le istituzioni.”