9 mesi di blog

Sono passati 9 mesi da quando ho deciso di aprire il blog. Nove lunghi mesi, come in una gravidanza. In effetti, questo percorso è stato un po’ come una gravidanza, la creazione di una creatura, l’inizio di un viaggio, una scoperta, un continuo imparare e mettersi alla prova. Ho avuto anche le nausee! Mi sono sentita incoraggiata e rallegrata, ma anche angosciata dai racconti di chi ci è passato prima di me proprio come quelli che ti raccontano il loro dolorosissimo parto e tu muori di paura. Ho alternato momenti di gioia a momenti di sconforto. Momenti in cui mi sono sentita supportata a altri in cui mi sono sentita completamente sola.

Adesso siamo vicino al parto e mi piacerebbe fare con voi un po’ il punto della situazione su ciò che ho capito e imparato in questi nove mesi.

Innanzitutto ho sottotitolato questo blog “blog sui bambini gender fluid”. Oggi so che ho sbagliato e ogni volta che lo leggo mi dico che devo cambiarlo.

I bambini “gender fluid” sono tutti quei bambini che, con nonchalance, fluttuano tra i due generi, proprio come un  fluido su un piano mobile. Mio figlio non è gender fluid. Lui non fluttua affatto. Sottotitolare il blog così è molto restrittivo e fuorviante. Essere gender fluid, infatti,  è solo una delle varianti di chi è “transgender”. Vi dico la verità: nove mesi fa scrivere la parola TRANSGENDER riguardo a dei bambini, tra cui mio figlio, mi spaventava moltissimo. Credevo che transgender volesse dire in inglese “transessuale” (quindi chi fatica a capire può consolarsi…non è facile nemmeno per me tirare le fila di un mondo enorme e difficile da comprendere  per chi è cresciuto nel sistema binario maschio/femmina). Credevo anche, mi vergogno a dirlo,  che noi usassimo la parola transgender come un inglesismo al posto di transessuale perché faceva più figo. E credevo che gender fluid fosse chiunque non fosse prettamente transessuale.

Ora so che le cose stanno diversamente e credo sia il punto da cui partire.

La parola TRANSGENDER è una sorta di NOME COLLETTIVO che racchiude tutte quelle persone che hanno una varianza di genere cioè che non si identificano completamente o solamente o per nulla nel loro sesso biologico, tutte quelle persone quindi che “attraversano il genere”, varcano il limite del genere biologico a cui appartengono. Ora, devo dire la verità, più sono andata avanti a leggere e studiare più mi son resa conto di come questo attraversamento sia assolutamente soggettivo in quanto legato allo stereotipo della società in cui si vive. Intendo dire se in occidente pare quasi un reato che un uomo indossi, per esempio, una gonna o un vestito, in molte culture, al contrario, è assolutamente normale: pensiamo ai vestiti tipici africani o anche arabi.

In realtà anche in occidente abbiamo dei casi: basti pensare al kilt in Scozia. Il tipo di abbigliamento, inoltre, non solo dipende dalla cultura, ma anche dal periodo storico. Insomma,  a parer mio, è tutto davvero molto relativo e dovrebbe portare tutti a pensare  come la “diversità” venga da fuori e sia meramente un giudizio  dato da qualcuno che non riconosce come proprio un certo atteggiamento. Ma chi ha stabilito “cosa sia proprio di chi”? Per questo motivo in questi mesi mi sono sempre più convinta che quella che viene definita “disforia di genere” e che viene considerata una malattia psichiatrica in realtà debba essere considerata un minority stress. Cioè uno stress legato all’appartenenza a una minoranza. Non solo: riguardo alle persone transgender (come anche per le persone con una “sessualità atipica”) lo stress è ancora maggiore. Infatti se parliamo, per esempio, di minoranza razziale o religiosa parliamo comunque di persone che,  almeno all’interno del loro nucleo famigliare, trovano supporto. La famiglia è importantissima per lo sviluppo dell’autostima in un bambin* o un ragazz* e sicuramente, se nasci in una famiglia di religione, che ne so, Amish o in una famiglia  con la pelle scura in un paese a maggioranza bianca, nessuno ti escluderà, farai parte da sempre e per sempre di un gruppo accogliente. Potrai essere discriminato fuori, ma avrai chi ti sta vicino. Le persone transgender, invece, sono in questo momento forse quelle che pagano il prezzo più alto. Gli omosessuali infatti, azzardo a dire,  si sono abbastanza affrancati, anche se da molto poco, ma chi è transgender spesso non è compreso, viene cacciato, emarginato anche dagli stessi genitori.

Oggi ero in libreria e guardavo in giro tra le sezioni di antropologia e sociologia e infanzia e mi rendevo conto del vuoto totale che c’è riguardo all’identità di genere. Ed è un vuoto che dobbiamo assolutamente colmare per far sì che nessuno si senta più solo e che vengano dati i mezzi alle persone per capire e conoscere.

In questi nove mesi ho capito che le  persone transgender possono essere di un numero infinto di varianti….forse tutti siamo un po’ transgender. O forse non lo è nessuno. Voglio dire: le donne che portano i pantaloni vengono considerate transgender? Assolutamente no. E allora perché invece deve accadere questo per gli uomini che indossano una gonna? In Francia, Dominique Moreau ha da tempo fondato una associazione che si chiama Hommes en jupes (uomini in gonna) per rivendicare il diritto degli uomini a poter indossare la gonna, indumento molto più fresco e pratico soprattutto in estate.

Quando mi trovo a pensare a tutte queste cose allo stesso tempo cerco di non banalizzare e annullare la sofferenza che sicuramente esiste in tutte quelle persone che non si riconoscono nel loro corpo e che ogni giorno incontrano grandi difficoltà per riuscire  a far sì che il loro corpo somigli il più possibile a quello che loro si sentono di essere. Sono percorsi lunghi e difficili e anche fisicamente dolorosi. Per questo tutti coloro che pensano che certe cose siano un sfizio e/o un vezzo dovrebbero capire che ci dovrebbe essere una enorme dose di masochismo per sottoporsi a tali e tanti interventi così tanto per.

In questi nove mesi ho capito che ogni persona è assolutamente diversa. Creare delle categorie aiuta, ma ogni persona che mi ha scritto o contattato mi ha dato qualcosa di differente da quella prima perché ogni esperienza è un mix di carattere, casualità, ambiente, cultura, educazione e, sì, anche possibilità economiche. Mi è capitato in questi mesi di parlare con chi frettolosamente diceva quanto l’Italia sia un paese accogliente poiché il sistema sanitario nazionale “passa” le cure per la transizione . Questo a parer loro era, non solo un enorme segno di apertura, ma anche di aiuto economico. Ovviamente è meglio così piuttosto che non fosse passato affatto, ma forse bisognerebbe tenere in conto anche i ticket da pagare, i viaggi per andare nei pochi centri di supporto che ci sono n Italia, le permanenze negli alberghi, le spese legali perché il giudice approvi la transizione (perché non dimentichiamoci che sarà un giudice, spesso non troppo competente, a decidere della tua vita). Insomma le cose da tenere in conto sono moltissime e i conti salati. Io personalmente quando ho fatto fare a mio figlio il percorso di valutazione sono andata privatamente perché non volevo portare un bambino di sei anni in ospedale perché voleva vestirsi da femmina. L’ultima cosa che volevo era che lui si sentisse malato. So di tante altre famiglie che hanno avuto il mio stesso pensiero. Andare privatamente costa e io ho dovuto rinunciare a molto per poterlo fare.

In questi nove mesi ho capito una cosa importantissima: la gente è pronta ad accogliere e desiderosa di capire. E’ vero ci sono i gruppi di destra ben organizzati che fanno tanto rumore e spaventano i più, ma la gente vera, il popolo c’è. Sopratutto di fronte ai bambini. Ho ricevuto decine di lettere e messaggi di ammirazione e comprensione e nessun messaggio di critica. Le critiche venivano di solito fatte nei commenti sotto gli articoli. Nessuno, dico nessuno, era abbastanza convinto delle proprie idee o abbastanza coraggioso da scrivere personalmente a me. Questo credo che dimostri poca convinzione e un buon livello di vigliaccheria. Sono convinta che, se si inizierà a fare informazione nel modo giusto, la gente inizierà anche a capire nel modo giusto e i bambini di oggi avranno la vita più semplice e i bambini di ieri si riscatteranno da un passato a dir poco difficile e doloroso.

In questi nove mesi ho raggiunto lo scopo che volevo: conoscere altre famiglie come la mia. Ho aperto il blog sapendo che non ero sola e con la speranza che la mia storia desse coraggio ad altri e così è stato. Sono stata contattata da qualche decina di famiglie: tutte persone straordinarie e tutte con una storia simile alla mia anche se ognuna a modo proprio. Ho raccolto storie, pianti, sfoghi. Condiviso risate e paure. Unito le volontà e le forze per progettare  qualcosa di concreto per fare informazione e muovere le coscienze. Purtroppo in questi nove mesi ho anche capito che io e queste famiglie dobbiamo muoverci da sole. Se aspettiamo che qualcuno “più su” ci supporti i nostri figli saranno adolescenti e ai nostri figli si uniranno altri bimbi infelici. Ogni tanto c’è stato qualche sprazzo di luce, ma ad oggi purtroppo  sono convinta che, in un paese così tradizionalista come l’Italia, nessuno oltre a noi diretti interessati si voglia prendere la responsabilità di portare avanti una causa tanto delicata. Sbagliando, a mio avviso, in maniera colossale poiché i diritti umani dovrebbero essere universali e non avere interessi politici ed economici e personali (tipo difesa della propria personale poltrona).

In questi mesi ho fatto studi interessantissimi di antropologia e sociologia in cui ho potuto constatare che in moltissime culture esiste il terzo genere, ma anche il quarto, ma anche bellissime varianti mix da sempre riconosciute. Sono studi che mi danno speranza, che portano esempi di successo e umanità, che saranno utili per far capire alla gente chi è l’essere umano.

In questi nove mesi mio figlio è cambiato ancora e ancora. Perché è un bambino e i bambini si evolvono, crescono, cambiano, esplorano. E Dio solo sa quanto  per me questo sia un percorso faticosissimo, costellato di preoccupazioni sempre nuove che, come navi in burrasca, non trovano mai il porto. Ma in questi nove mesi ho capito un’altra cosa: il problema è mio. Sono io che fatico a trovare una risposta. Perché io cerco una risposta dove risposta non c’è. Sono io che ne ho bisogno. Quando ho iniziato questo viaggio per me il punto era: “Ok se mio figlio non è maschio allora è femmina” (non che la cosa mi tranquillizzasse). Invece in questi nove mesi ho capito che dobbiamo davvero immaginare il genere come un binario in cui le due rotaie, distanti e parallele, sono il maschio e la femmina e tutto lo spazio che c’è in mezzo, molto, ma molto più ampio delle rotaie stesse, rappresenta ogni diversa sfumatura di genere e di identità. La difficoltà grandissima è che quell’enorme spazio “non esiste” per i più. Si può arrivare a capire che una persona sia transessuale perché la transessualità paradossalmente conferma il binarismo; la persona infatti passa dalla casella M alla casella F o viceversa. Tutto quello che esiste nel mezzo pare non abbia identità se non come negazione di qualcosa. Ecco che allora le persone nel mezzo sono NON-binarie, NON-conforming. Come ci si può sentire completamente sereni se per raccontarci dobbiamo essere la negazione di qualcosa?

Le  cose che ho capito, e che non posso  elencare tutte perché non finirei mai, devono trovare voce, devono essere rese pubbliche. Sono mesi che cerco di arrivare a un punto ma la verità è che per fare informazione, per cercare di agire per bene, per farsi sentire, servono soldi. Per creare una associazione che sia in grado di dare supporto servono soldi. Oltre a una enorme quantità di tempo. Ho dedicato tutto il tempo a mia disposizione in questi nove mesi, barcamenandomi tra un accompagnamento e ripresa a scuola,  un parco giochi e ore al telefono coi giornalisti e  con le famiglie, ritrovandomi spesso a fine giornata come oggi (sono le nove di sera e sto scrivendo da un bel po’ e i miei figli devono ancora mangiare), sfinita, col frigo vuoto, a cercare di capire come agire per conciliare tutto. Senza soldi non si realizzano le cose giuste da realizzare. Così stamattina mi sono svegliata. Ho riletto il messaggio di Loredana di ieri in cui mi diceva quanto fosse angosciata per suo figlio che ogni giorno di più insiste nel suo essere femmina e le chiede “mamma quand’è che i dottori mi mettono la patatina?”. E per chiarire: l’angoscia è  data principalmente dalla mancanza di tutela, di diritti, di informazione, di supporto, di rete. Ecco tutto questo dobbiamo crearlo noi. Nel leggere il suo messaggio mi sono sentita in colpa che l’associazione non ci fosse già, che non si fosse già fatto qualcosa. Oggi, io e Loredana, ci siamo scambiate ansie e quelle battute tipiche di chi cerca di smorzate in qualche modo. Finché io ho avuto una illuminazione e ho pensato di andarmi a studiare i siti che esistono per raccogliere fondi. Io ho tutta la volontà di portare avanti questo progetto, ma ho bisogno dell’aiuto di chiunque possa aiutarmi.

Ecco allora il parto….la gestazione che finisce e la creatura che viene alla luce:

 

LA NOSTRA ASSOCIAZIONE

“MIO FIGLIO IN ROSA”

 

Passerò l’ estate in Spagna per studiare al meglio la struttura delle loro associazioni e il modo per poter anche noi agire in Italia in maniera efficace. La mia speranza è riuscire entro il mese di settembre a dare il via a tutti questi progetti che credo siano basilari per arrivare a tutelare i diritti di ogni individuo e non solamente quelli dei nostri bambini. Spero con tutto il cuore,in questi 3 mesi, di raccogliere abbastanza fondi per poter iniziare alla grande e di ricevere supporto  morale per affrontare tutti insieme una sfida e un viaggio difficile. Ma i viaggi difficili sono anche quelli più importanti.

Ringrazio tutti, tutti, tutti, tutti: quelli che hanno incrociato la mia strada questi mesi, quelli che mi hanno scritto anche solo una parola, quelli che mi hanno stimolato a riflettere ancora di più, quelli che mi hanno con pazienza fatto rileggere gli articoli, quelli che mi considerano molto più di quanto io non sia (non rimaneteci male quando ve ne accorgete 🙂 ), le famiglie dei bimbi creativi che mi hanno scritto e mi hanno confidato le loro cose più intime fidandosi di me senza avermi mai visto, tutte le mamme che mi hanno fatto piangere mentre per la strada leggevo le loro mail, i ragazzi coraggiosi che hanno fatto percorsi difficili senza il giusto supporto (spero per loro che la nostra associazione possa diventare un aiuto) e che hanno trovato il tempo di scrivermi. E ringrazio fin d’ora chi vorrà aiutarci a realizzare i nostri progetti.

Non ringrazio i miei gatti che regolarmente devono sdraiarsi sulla tastiera mentre scrivo!

 

 

 

 

8 thoughts on “9 mesi di blog

  1. Wow. Camilla, ho quasi le lacrime agli occhi. Trovo che tu sia di un’intelligenza straordinaria e dotata di un cuore ancora più straordinario.
    Hai riassunto tutto alla perfezione. Tutto. Tutta la questione.
    Complimenti per la nascita. Complimenti per questo nuovo parto. È un’idea meravigliosa.
    Grazie per tutto il lavoro che fai.

    Un ex-bambino infelice.

  2. Da poco ho iniziato a leggerti, sto ancora riflettendo, coinvolta “di striscio”, ma coinvolta. Il tuo progetto di creare quest’associazione è… non so, non mi piacciono gli aggettivi!

  3. hai mai pensato a kickstarter o indiegogo? potresti riuscire a raccogliere fondi, molti progetti della categoria giornalismo potrebbero essere assimilati al tuo
    in bocca al lupo

  4. Essere uomo o donna non ha niente a che fare con essere felici … spesso leggo questo spasmodico bisogno di rendere i nostri figli felici, di non voler turbare le loro coscienze , di ritardare il più possibile un’ infelicità purtroppo inevitabile … ed invece dovremmo insegnare ai bimbi ad essere infelici , a saper gestire la tristezza è l’ insoddisfazione , a saper affrontare la noia è la disperazione …. perché saranno parte integrante di un’ esistenza . Credere di poter creare la felicità per un’ altra persona è una mera illusione . Dare le armi per affrontare il dolore e la sofferenza é un dovere ma insegnare a combattere e sopravvivere si può fare solo se si ha ben chiaro chi é il nemico … in questo caso la società é il tuo nemico o meglio di tuo figlio …il problema é … siamo sicuri che il problema sia maschio o femmina ? Che sia portare una gonna o un pantalone !? Rivendicare un sesso che non è il proprio ? Questa introspezione, questo voler guardare il proprio io é tipico dei bambini … ma ancor più tipico é degli adulti egoisti e di una società egocentrica che vede solo i propri bisogni … distogliere l’ attenzione da noi stessi é una delle poche cose che ci fa ritrovare chi siamo …

  5. Grazie per il tuo coraggio, per la tua tenacia e per condividere concretamente la tua intelligenza.
    Vivo un momento delicato in cui sto cercando di capire mia figlia di nove anni. Spero di poterla accompagnare nel modo migliore per incontrare il suo io.

    1. grazie a te per il bel messaggio. Breve ma pieno di sincerità. Appena riesco ti rispondo in privato.
      Camilla

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