La fluidità del genere oltre Ruby Rose
di Valeria Mazzaferro
«Come non ti vedi come donna? Ma non eri femminista una volta?» Lo sguardo della mia amica è sinceramente deluso. Vorrei spiegarle cosa esattamente significhi per me avere un genere fluido, cosa provo nei giorni in cui sentirmi interpellata come ragazza mi stupisce, in cui devo sopprimere l’istinto di guardarmi intorno perché io qui di ragazze non ne vedo. Vorrei giustificare la mia gioia quando mi guardo allo specchio e con i capelli rasati, una camicia a quadri e un rossetto scuro mi vedo di genere ambiguo, quando per strada, anche se soltanto per pochi secondi, di spalle vengo presa per un ragazzo. Ma non so come.
Prima difficoltà: mi manca letteralmente il vocabolario per farlo. La mia testa è colma di termini inglesi che non riesco a tradurre. D’altronde in italiano non esiste nemmeno un pronome neutro. Quanta invidia per le persone che a un certo punto del loro percorso hanno la scelta, almeno teoretica, tra she, he e they, che utilizzato al singolare funziona come neutro.
Seconda difficoltà: sono ancora lontana dal capire completamente la mia propria identità di genere. Per molto tempo non ho osato parlarne, pensando che se non fossi stata capace di esporre in modo eloquente la mia divergenza dal modello donna cisgender la mia identità non sarebbe stata valida, sarebbe stata presa per una fase di confusione, un capriccio. Ovviamente saranno in tant* a effettivamente pensarla così – e non ho intenzione di perdere il mio tempo cercando di fornirgli spiegazioni. Ormai ho capito che forse non arriverò mai al punto di aver capito tutto, e che va bene così. Il mio genere è valido perché lo sento mio, non perché saprei analizzarlo a fondo o meno.
Quello che posso dire alla mia amica è che sono femminista oggi come ieri, e che il mio femminismo sarà sempre dedicato alla liberazione di tutt*, anche di chi non si ritrova in “tutti” o “tutte” ma soltanto nell’asterisco. Che non ho scelto di non essere donna, mi sono soltanto liberata dall’obbligazione interiorizzata dell’esserlo.
E posso passarle la domanda a cui di solito devono rispondere coloro a cui viene chiesta una giustificazione per rifiutare il binario di genere: cosa significa la tua identità? Nel suo caso: perché ti definisci donna, cosa ti fa sentire tanto certa di esserne una? Non lo sa neanche lei. Dice che in fondo è nata donna, ma che è una buona domanda, che forse dovrebbe pensarci. Di darle un po’ di tempo affinché possa trovare una risposta più concreta. Spesso quando faccio coming out chi non mi capisce inizia a frenarsi quando inverto la curiosità, l’insistenza. E si rende conto quanto in fondo esigere una giustificazione per essere te stesso sia ridicolo.
Io stessa sono partita da quel punto. Da una persona trans che mi chiese: E tu, perché sei donna? Non ho mai trovato la risposta, ho soltanto trovato altre domande più adatte al mio essere. Forse in un altro mondo, un mondo senza eteropatriarcato transfobico, non investirei tanta energia nel mettere in questione il mio genere assegnato alla nascita. D’altronde in quel mondo non passerei il mio tempo a leggere libri di teoria queer o a discutere di femminismo sui social media. Ma questo non cambia il presente.
In Italia, si sa, il gender fa paura. In fondo “teoria del gender” è soltanto un modo bizzarro per denominare la semplice nozione della parità dei sessi e la decostruzione degli stereotipi legati all’essere donna o uomo. Figuriamoci se sentinelle & co. venissero a conoscenza del lato ancora più mistico, oscuro e pericoloso del fatidico gender: le identità non-binarie. Genderqueer, agender, genderfluid, neutrois, bigender sono solo alcuni dei termini che si muovono tra il femminile e il maschile, e oltre queste categorie. Categorie che non si escludono necessariamente a vicenda, che per ognun* hanno un significato individuale. Categorie emerse da poco, che spesso non esistono nemmeno nell’immaginario queer dei paesi non-anglofoni. Che implicano un esistenza all’ombra in una società che non arriva ad immaginare esistenze oltre il binario, fino a negare quelle contemporanee.
La mia relazione di coppia si muove interamente in questa zona grigia. Un passante casuale che incontri J. e me in centro dirà di aver visto due ragazze lesbiche intorno ai vent’anni; in realtà nessuna di noi si identifica con l’essere una donna attratta dalle donne. Nella nostra intimità di coppia, su internet, con alcun* amic* siamo una persona agender e un’altra genderfluid. Entrambe non troviamo i termini giusti per parlare di noi due. “Partner” ci fa sentire una coppia di quarantenni, e quindi continuiamo a chiamarci ragazza a vicenda. Cambiamo pronomi a seconda della lingua che stiamo parlando.
Le terminologie che usiamo per riappropriarci dei nostri corpi categorizzati come femminili alla nascita sono nate su internet e spopolano soprattutto su siti come Tumblr, il paradiso del degenere, e vengono adottate per lo più da una popolazione giovane, che non si identifica più con categorie come butch o femme che ai loro tempi sfidavano a loro volta i confini di genere tradizionali. E stanno ormai approdando il mainstream. Facebook tra le sue cinquanta opzioni di genere ne offre anche di non-binarie, esattamente come da poco OKCupid, senza dubbio il sito di incontri più queer friendly.
Ora ci sono persino celebrità che hanno portato il concetto dell’essere né donna né uomo all’ordine del giorno: le più conosciute sono certamente Miley Cyrus e soprattutto Ruby Rose, icona queer almeno dal momento della sua apparizione in Orange is The New Black. Le malelingue sostengono che il personaggio di Stella sia stato inserito nella terza stagione soltanto per attirare spettatrici grazie al fascino della modella australiana, che secondo i media farebbe “diventare lesbiche le ragazze etero”. Solo che anche le fan più sfegatate tecnicamente non possono diventare lesbiche alla sua vista – Rose non è una donna. Ha fatto coming out come gender fluid – di genere fluido, che praticamente può cambiare da un giorno all’altro – nel 2014. Per molt* fans deve essere stato il primo contatto con parole che non avevano mai incontrato prima.
Dovrei quindi essere contenta, finalmente potrei spiegarmi in una frase concisa: “Sono genderfluid, sai, come Ruby Rose”. Invece mi ritrovo, come tante altre volte, nel ruolo della guastafeste. Noi che siamo tanto queer diciamo di voler abolire le norme e gli stereotipi. E non dico che non ci si provi nella comunità, ma troppo spesso ricadiamo nei vecchi schemi. Noi, disadattat* della società etero e cis, erigiamo altre norme a cui aggrapparci per sentirci validat*, e che di conseguenza discreditano chi non raggiunge certi standard.
C’è chi è trans ma non si sente “abbastanza trans” perché non vuole o non può raggiungere il presunto obbiettivo della transizione, il passing. E, per chi non si definisce in termini binari, ce chi è agender, neutrois, genderfluid ecc., ma ha paura di non esserlo “abbastanza”, perché non vuole o non può raggiungere l’androginia ideale alla Ruby Rose. E Rose, senza volergliene fare una colpa o criticare il suo stile, non si allontana poi tanto dalla norma corporea irraggiungibile che ci è sempre stata imposta dalla cultura patriarcale. Il corpo androgino al culmine della desiderabilità è bianco, magro, senza curve percepibili, non-disabile.
Questo spazio è troppo limitato per le multiple, favolose realtà queer che esistono senza la prospettiva di ricevere una accettazione simile. Un esempio che mi ritrovo accanto è la mia ragazza. Il suo corpo è uno di quelli che, come l’ha formulato Sam Dylan Finch, non possono nascondersi nelle pieghe di un abito da uomo – rimangono troppo visibili le curve che la tradiscono, che le procurano la sua dose giornaliera di disforia e la segnalano come donna agli occhi di chi legge i corpi altrui come se una lezione base di biologia fosse sufficiente per trarre conclusioni sui pronomi e l´identità di un estrane*.
La norma androgina che separa chi può legittimamente dirsi androgino e chi no è ovviamente più vecchia di Ruby Rose, e la si ritrova anche su Tumblr. Passare delle ore a vagare per i post con il tag “agender” porta J. a concludere regolarmente che non potrà mai realmente raggiungere un aspetto androgino riconosciuto come tale. Perché le immagini che vengono presentate sono troppo simili una all’altra, manca una pluralità di espressioni. Quante volte l’androginia trendy è in realtà una forma di mascolinità dichiarata neutra? Troppo spesso le identità non-binarie e una presentazione di genere più classicamente femminile vengono immaginate come contraddizione.
Gli spazi queer aspirano ad essere spazi radicali. Se vogliamo mettere a disposizione nuove etichette a chiunque ne sia alla ricerca, cominciamo a lasciare spazio nell’ateneo dell’androginia anche ai corpi di colore, grassi, disabili, abbondanti di curve, in transizione. Cosa c’è di più radicale di celebrarli come desiderabili? Riconosciamo anche che l’identità di genere non-binaria e una presentazione volutamente femminile non sono una contraddizione. Quella di Ruby Rose è una storia marginalizzata, ma anche privilegiata e standardizzata sotto molti aspetti. È certamente un progresso che abbia raggiunto i media. Ma deve soprattutto servire da megafono per ampliare tante altre storie che da troppo tempo vivono all’ombra dell’arcobaleno.
Per l’articolo originale clicca qui http://www.softrevolutionzine.org/2015/il-genere-oltre-ruby-rose/