Siamo tutti colpevoli?

Ho conosciuto Paul un paio di mesi fa. Abbiamo pranzato insieme in un ristorantino in Placa d’Osca a Barcellona. Lui è scozzese, sposato con una ragazza di Barcellona e anche loro si sono ritrovati inaspettatamente nel mondo   “trans” a causa di un bellissimo bimbo che invece bimbo non era. Anche lui come me cerca di fare informazione, di combattere per i diritti, per mostrare le mille facce della normalità.  Ci siamo rimbambiti di chiacchiere fatte di racconti, lotte, evoluzione di pensiero, paragoni tra paesi, confronti tra prese di posizioni differenti tra le varie associazioni. E’ stato uno di questi incontri dopo i quali ti senti più ricco, dopo i quali ti senti fortunato di vivere quello che la tua famiglia vive altrimenti come avresti scoperto la bellezza della infinita varietà umana?

Eppure la vita, anche per chi combatte e per chi accoglie, può riservare orribili sorprese e, per quanto sia io che lui cerchiamo di fare del nostro meglio così come molte altre famiglie, a volte non è abbastanza. Cerchiamo di raccontare la bellezza per spingere la gente a capire ma a volte la corrente ti porta via e ti soffoca perché siamo pochi in una società che tende a eliminarti. Mi rincuora pensare però ciò che Charles Darwin affermava sull’evoluzione della specie:

Non è la più forte delle specie a sopravvivere, non è la più intelligente. Ma quella che più si adatta al cambiamento

Qualche giorno fa in Spagna un ragazzino trans di 16 anni si è tolto la vita. Io che sono socia dell’associazione Chrysallis come la sua famiglia e che con loro condivido la chat di whatsapp non sto a dirvi le parole di dolore dei suoi genitori. Era un dolore pieno di dignità e di rispetto per la vita e per il prossimo.

Quello che segue è un articolo che Paul ha scritto in questa occasione.

 

Da El Punt Avui, domenica 25 febbraio 2018

Siamo tutti colpevoli?

PAUL MCINTYRE – Riflessioni di un padre di una figlia trans

Sono passati più di due anni dalla transizione di mia figlia Ada, da quel giorno in cui è andata a scuola per la prima volta come bambina. E sono due anni anche che El Punt Avui ha pubblicato l’articolo La transessualità arriva a scuola. Durante questo periodo abbiamo assistito a una esplosione di attenzione da parte dei media per quel che riguarda il tema trans: il reportage di TV3 Transit, menores transsexuals, la guerra degli autobus o Avery Jackson (una bambina trans) sulla copertina della prestigiosa rivista National Geographic.

Questa crescita esponenziale  del dibattito pubblico nei confronti delle persone trans mi porta a mettere in discussione ciò che intendiamo per genere, sesso, sessualità e il significato dei nostri corpi. Tutto indica un futuro più fiducioso per il nostro collettivo, tuttavia siamo qui questa settimana in lutto per aver perso un altro giovane trans. Si dice che si tratta di  “un omicidio operato dalla società”. Questo significa che siamo tutti colpevoli? Significa che siamo tutti coinvolti nella sua morte?

Lo psicologo Jean Laplanche ha affermato che “l’assegnazione del genere è un processo complesso di azioni che si estende dal linguaggio al comportamento degli adulti che circondano i bambini”. Il bambino viene continuamente bombardato da messaggi da parte di tutti gli adulti che costituiscono il loro intorno familiare, che indicano quale sia l’assegnazione di genere normativa. Anche prima di nascere, stiamo già indagando sul genere del bambino: è un maschio o una femmina? Se la differenza tra i due generi è naturale come molti sostengono, questo processo non sarebbe necessario.

Se siamo partecipi nell’assegnazione del genere dei nostri figli e figlie, mi chiedo se lo siamo anche del loro orientamento sessuale. Dopo la transizione di mia figlia (all’età di 6 anni), una volta socializzata come una bambina, l’unico svantaggio che lei ci  vedeva era il fatto di aver  dovuto rinunciare alle sue “fidanzate”. Prima del transito, ricordo che alcuni genitori ci erano  venuti a dire che la loro figlia e nostro figlio erano “fidanzati”. Ora già non parlano più di una bella storia d’amore tra i nostri figli, ora parlano di “migliori amici”. Gran parte dell’apprendimento durante l’infanzia consiste nel saper interpretare i messaggi degli adulti e imparare a distinguere ciò che è accettabile da ciò che non lo è. Se l’eterosessualità è innata, perché mettiamo tanta enfasi sull’insegnamento di questi ruoli?  Se un bambino non si conforma alle nostre aspettative, lo indottriniamo affinché mantenga il silenzio rispetto alla propria identità e sessualità e gli insegniamo ad essere invisibile. Mia figlia è consapevole di quali ruoli e quali relazioni sono sanzionate. Ovviamente un bambino non sa come spiegarlo, ma sa che ci sono delle aspettative rispetto al genere che provengono  da chi lo circonda.

Quando lo slogan transfobico del bus Hazteoír diceva: “I bambini hanno il pene e le ragazze hanno la vulva, che non ti ingannino”, quello che ha scandalizzato in realtà la gente era davvero il messaggio? Perché, anche se duole dirlo, il messaggio è lo stesso attualmente contenuto nei libri di testo. Purtroppo, non si vedono proteste nelle strade per cambiare i libri di testo o l’approccio educativo. Oltre alla responsabilità  individuale che ognuno di noi ha rispetto al cambiamento sociale, dobbiamo anche chiedere alle nostre istituzioni (in campo politico, educativo, sportivo, religioso, ecc.) di contribuire a questo cambiamento.

Noi rivendichiamo l’amore per i nostri figli e vogliamo che abbiano una vita piena di emozioni, ma allo stesso tempo il messaggio che diamo a loro è che questo amore deve restare nei limiti dell’accettabilità. Forse, se riuscissimo ad ammorbidire la rigidità del nostro attuale sistema binario (uomo / donna) e accettassimo che le persone sono troppo complesse per essere ridotte a una sola essenza, allora non staremmo piangendo la perdita di un altro giovane trans.

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