L’ira dei buoni

Quello che segue è l’urlo di una madre che oggi mi scrive disperata. Sono giorni che insieme cerchiamo soluzioni ma alla fine ci ritroviamo così: a cercare di sfogarci e consolarci tra di noi.

Io sono davvero stanca, stanchissima. La mia cervicale urla vendetta. Ogni mia tensione è scaricata lì. E io sto tesa, rigida, ormai anche molto incazzata per una situazione che finora ho cercato di gestire in maniera dolce, politicamente corretta. Ora non ce la faccio più e non perché sono stanca, ma perché non ci sono più scuse e giustificazioni per cercare di capire perché in questo paese si agisca così.

Questa volta non parlo della gente comune. Lì sappiamo tutti come siamo messi e io, onestamente, ho ancora la speranza che per molti si tratti di non conoscenza, che se sapessero ci darebbero una mano, se sapessero non farebbe differenza rosa, azzurro maschio o femmina o tutti e due.

Questa volta parlo di chi sa. Di chi da anni si occupa o si dovrebbe occupare dell’identità di genere, parlo di quei centri, associazioni, ambulatori che si spacciano per “presenti” ma non lo sono, parlo di tutti quei (pochi per carità) esperti che guardano solo al curriculum, che si vantano di essere presenti a questa o quella conferenza dove faceva figo esserci, di essere stati selezionati per questa o quella “nuova edizione di…”.

Ma con quale faccia andate e parlate? Con quale faccia vi spacciate per esperti quando l’unica conoscenza che avete realmente si basa su libri e non su la conoscenza vera delle persone? Con quale faccia e quale cuore andate a parlare quando la verità è che noi famiglie siamo sole, che a nessuno importa nulla se i nostri figli arrivano a dichiarare che sarebbe meglio fossero morti? Come potete essere orgogliosi del lavoro che state facendo quando la verità è che lavorate solo per voi stessi, per la vostra carriera, per i vostri titoli?

Io cerco di parlare con questo o con quello. Cerco di essere gentile. Cerco di passare il messaggio che c’è bisogno di aiuto. C’è in Italia chi si spaccia di essere esperto di identità di genere da decine di anni, ma allora perché nessuno ne sa ancora nulla? Perché le famiglie arrivano da me disperate? Perché quando vanno in rete trovano me e non trovano uno straccio di centro, ambulatorio, pubblicazione, consultorio? Perché i pediatri ancora non conoscono nemmeno il significato delle parole “identità di genere”? Perché non hanno in questi anni cercato di fare rete e  unire noi famiglie?

Perché la verità è che mentono. Ma mentono di brutto.

Mentono a tutti e principalmente a loro stessi. Mentono per  uno sporco curriculum che spero un giorno, quando saranno più vecchi, quando la carriera non sarà più così importante, gli peserà sulla coscienza a causa di tutti i ragazzi morti o depressi o bulimici o anoressici che hanno sacrificato pur di andare alla tale conferenza a mostrare la tale pubblicazione che si leggono solo tra di loro per complimentarsi tra di loro e poi farsi le scarpe tra di loro mentre sorridono tra di loro per poi sparlarsi tra di loro.

 Si vergognassero anche un po’ … tra di loro!

 

In un anno e mezzo mi hanno scritto genitori, nonni, ragazzi, ex bambini ormai adulti. Tutti urlavano come me ora, come la mamma che ora leggerete. Tutti con lo stesso problema: la solitudine, l’abbandono, la mancanza di informazioni, l’assenza di presenza. Tutti con lo stesso senso di colpa: perché il bello è che anche quando trovi qualcuno a cui rivolgerti spesso la prima cosa che fa è mettere in discussione il tuo operato come genitore, il tuo equilibro come persona. Nessuno che abbia almeno l’onesta di dire: “non ci capisco un cazzo”. Anzi ti dicono che loro sì che ci capiscono, che di famiglie come la tua ne hanno viste parecchie. Che hanno molta esperienza. E tu ti domandi: ma se ci sono dove sono allora queste famiglie? Siamo l’unico paese in cui le famiglie non vogliono fare rete?

Voi ci credete? Io per niente!

 

 

Cara Camilla,
è trascorso un anno da quando la mia bimba mi ha trafitto con le sue dichiarazioni. Sì, proprio così. Aveva nove anni quando, a marzo dello scorso anno, mi ha detto che non vuole che le crescano i seni, non vuole “avere le perdite” come ce le ho io, mi ha chiesto perché è nata femmina. Così, a bruciapelo. E io l’ho abbracciata mentre piangeva disperata. Lei che non lo fa quasi mai.
Ho trascorso un anno in cui ho preso le misure di ciò che mi ha detto: ho valutato, riflettuto, indagato. L’ho scrutata, osservata senza perderla mai di vista. Un anno in cui mi sono anche illusa. E ho incontrato te, di notte. Nel deserto del web, tu e il tuo coraggio.
Quest’anno, esattamente un anno dopo, di nuovo altre dichiarazioni. Più forti, intense, particolareggiare. Sgorgavano tra le sue lacrime inconsolabili. Un dolore lacerante, inenarrabile. L’amore della mia esistenza soffre così. Ha uno sguardo che adesso comprendo fino in fondo. Perché adesso rivedo tutti i suoi sguardi passati, ricollego certi episodi della materna.
Fino all’età di sette anni sembrava tutto piuttosto normale. Magari sono rimasta molto colpita quando a soli tre anni ha voluto tagliare i suoi lunghissimi capelli dorati e ondulati. Senza ripensamenti. Con asettica freddezza: zac! “Adesso la smetti di pettinarmi, vero?”
Ha poi iniziato a manifestare la predilezione per le maglie con i mostri, fino a sfumare sempre più verso l’abbigliamento maschile. Ho trascorso molto tempo a selezionare vestiti che non mortificassero troppo la sua bellezza.
Poi l’evento traumatico della sua vita: la separazione tra me e suo padre. Un’escalation verso il genere maschile. I capelli, che per un periodo ha portato lunghi fino alle spalle, sono stati tagliati per sempre. Cortissimi.
Nessuno pensa che lei sia una bimba. Quest’estate, e già tremo, la tradiranno i seni acerbi, l’ansa dei suoi fianchi… Il mio è lo sguardo di una madre che prova a riconciliare le due immagini della stessa persona.
In questi giorni abbiamo cominciato il percorso a Careggi. Il servizio fornito è di soli due pomeriggi al mese. Un servizio principalmente dedicato agli adolescenti. Ai bambini non ci ha pensato nessuno. Cos’è: ipocrisia? indifferenza? Pensiamo che i bambini non abbiano una identità?
Ho visto la responsabile del servizio la scorsa settimana. Mia figlia si fida di me e ha accettato l’incontro. Ho confidato in una continuità, vista l’urgenza. Il primo appuntamento utile mi è stato ridato tra un mese! Ma come? E cosa me ne faccio io di questo vuoto? Come lo riempio? Cosa racconto alla bimba? E da dove si riprende il discorso tra un mese?
Mi hanno detto che qualcosa faranno. Ma non possiamo vivere con questa assenza di considerazione, facendo finta che il problema, la sua urgenza, si possa rimandare, procrastinare.
Mia figlia mi ha detto che ha pensato che per lei sarebbe meglio morire. E allora io non posso tacere. Non posso per l’amore che ho per lei, non posso per tutti gli altri che non hanno voce e per tutti quelli che non l’avranno più. Io voglio denunciare l’assenza di un servizio pubblico idoneo. Un servizio che sia completo, previsto, accessibile. Perché io non posso prendere ferie, far saltare la scuola alla bimba, fare 70 km e pagare dai 50 euro in su a seduta. Io denuncio l’assenza di considerazione che c’è per questi nostri figli. E la mancanza di formazione sia dei pediatri che del personale scolastico. Noi genitori siamo soli.
Senza questo spazio non ci sarebbe voce, non ci sarebbe ascolto.
Grazie Camilla.

11 thoughts on “L’ira dei buoni

  1. In Italia svettano le teste di cazzo !!!
    In Italia non si usano i bloccanti, in Italia si tratta la disforia di genere degli adolescenti da pochi anni, i bambini possono pure crepare.

  2. Non è solo una questione di organizzazione o di strutture di assistenza psico-sociale, vi è una cultura ancora lontanissima e immobile su ciò che è catalogato nel sistema binario uomo-donna. Qualche buon esempio c’è nell’aiutare, ma fatto da volontari che hanno sperimentato sulla propria persona tanti ostacoli quasi insormontabili. Penso che la sofferenza e la solitudine si combattono con la solidarietà, l’affetto di chi ti comprende. Sperimentato.

  3. Ce ne fossero di madri così.
    Di padri.
    Di nonni.
    Di zii.
    Di amici.
    Di amanti.
    Ma di madri soprattutto…
    L’appoggio di una madre è inequiparabile, sempre. E ancora di più in questo caso.
    Vorrei tanto avere questa madre di fronte adesso e dirle “continua”.
    Continua a incazzarti, continua a cercare un appoggio, continua a parlare di tua figlia, del suo disagio, dei suoi capelli, dei suoi pensieri. Continua.
    Perché finché ci saranno mamme come te che continueranno a lottare, ci saranno anche figli transessuali che riusciranno ad immaginare la felicità.

  4. Leggo questa lettera e da ex bambina che, proprio come la sua, voleva nascere maschietto, riconosco lo sbaglio di molti genitori. Lo sbaglio è esattamente in quello che lei lamenta, signora: cercare un sostegno psicologico, o addirittura un sostegno medico, a qualcosa che non è affatto una patologia. La patologia nasce negli occhi degli altri quando si compara la diversità e la singolarità di un individuo a un modello comportamentale rigido. Così facendo, tutto ciò che non rientra in questo modello è patologia, ha bisogno di sostegno psicologico, va trattato come un’emergenza. Signora, lasci essere sua figlia semplicemente quello che è, non la assilli con sedute che non fanno che fungere da cassa di risonanza alla sua crescita complicata. Piuttosto lavori lei su se stessa, provando a capire che siamo tutti diversi e che non rientrare in un modello non è una patologia, ma è, appunto, essere se stessi. Soprattutto nei primi anni di vita, l’identità dei bambini è quella che i genitori restituiscono loro, come degli specchi: i bambini credono a quello che i genitori pensano di loro. Se lei crede che sua figlia sia “non normale”, o non in grado di gestire l’evoluzione della sua individualità, perchè questo è quello che manifesta volendola portare da uno psicologo, sua figlia penserà di essere tale e il suo vero problema nascerà da quella percezione, non dall’essere quello che è. La mia esperienza personale è stata eccezionale solo per merito dei miei genitori che mi hanno guardata fare il mio percorso, amandomi incondizionatamente, ma lasciandomi libera di essere quello che ero, amandomi…attraverso la libertà: non mi è mai piaciuto essere una donna e, per la verità, mi chiedo ancora ora come si possa preferire essere una donna a essere un uomo (le mestruazioni, i dolori del parto, la “delicatezza” del fisico, senza contare i secoli di assenza o emarginazione sul lavoro); vesto ‘da maschio’ ora, come quando avevo dieci anni; faccio un lavoro in cui ci sono prevalentemente uomini. Eppure, sono felicemente etero (ma se anche mi fossero piaciute le donne non credo che per la mia famiglia sarebbe stato un problema); e la mia mascolinità, se così vogliamo chiamarla, è un punto di forza nei rapporti interpersonali e nel lavoro. Credo che questo sia il risultato di tanto saggezza, non mia, ma di chi mi ha cresciuto: quando a dodici anni sarei voluta sparire dalla faccia della terra per aver avuto il primo ciclo, e a quindici mi rasai i capelli a zero, i miei genitori non mi portarono da uno psicologo, ma mi diedero un buon libro da leggere, e insieme a tanta cultura, anche molta serenità. E, per la cronaca, ora i miei capelli sono lunghissimi.

  5. …e se invece lei parlasse con sua figlia, dicendole che i cambiamenti che il suo corpo deve affrontare non sono affatto tragici, che è una cosa fisiologica, che poi potrà continuare ad avere i capelli corti e vestirsi da ragazzo? davvero c’è bisogno di “specialisti”, e di specialisti poi in che cosa? si tratta delle nostre vite, gli specialisti siamo noi stessi e i nostri cari. quella bimba potrebbe essere da grande una lesbica, io sono stata un maschiaccio, sono grata a un’epoca in cui gli “esperti” non spadroneggiavano, per lo meno non su di noi figli della classe lavoratrice, e le molte ragazze, lesbiche o etero, che erano scontente del loro sviluppo lo erano per non voler finire come preda in un mondo di lupi. il mondo maschilista è rimasto lo stesso, noi donne dobbiamo trasmetterci forza per affrontarlo, invece di far credere ai nostri figli che pasticciare con corpi ancora prepuberi possa essere una soluzione

  6. Mia figlia non mi ha detto che vuole essere maschio. Mi ha chiesto perché è nata femmina, che non vuole essere femmina. Non parla di se al maschile, ma si è rasata la peluria del labbro col rasoio. Ha fatto altre cose che non racconto in questo spazio perché non me la sento. E non sono una madre che si preoccupa per sport! Ho aspettato un anno prima di cercare un aiuto. Magari non sarà nulla. E mi piacerebbe svegliarmi e scoprirlo. Ma non ignoro l’urlo di mia figlia, la sua tristezza e le sue lacrime. Non è una sciocca. Piange solo se qualcosa le fa davvero male. Altrimenti è una dura che non da nessuna soddisfazione.
    La gente non si espone al pubblico dominio per mitomania, noia o ch’esso io! Perlomeno non è il mio caso.
    Mia figlia merita tutto il mio ascolto e la mia attenzione. La decisione di aiutarla in modo specifico è stata soppesata e valutata lungamente. E mi sono rivolta al meglio che l’offerta medica ha in Toscana, nonostante i limiti di un servizio a cui la sanità non da il giusto spazio.

  7. Scusate, ma chi ha risposto con i commenti precedenti ha capito lo sfogo di questa madre?
    Con quelle parole e come se dicesse che il voler essere maschio è un capriccio di questa bambina (mi scuso se uso ancora questo termine, se sapessi come vuole essere chiamata, userei il nome che ha scelto).. ancora una volta, così, si sta rinnegando la sua libertà di essere ciò che sente. È come se si dicesse che dall’omosesualità si può guarire, è identico. Questa bimba “sa” che non si sente una “femmina”, indossare magliette con i mostri, giocare a calcio, ecc. non sono altro che modi di affermare questa sua consapevolezza, non sono la causa della sua scelta nell’orientamento di genere.
    A questo punto, non posso che dar ragione a Camilla sul fatto che noi sedicenti esperti non abbiamo ancora capito niente. La mente umana ha bisogno di etichette: maschio, femmina, transgender MtoF, transgender FtoM, omosessuale, eterosessuale, bisessuale, ecc. Stiamo sempre lì a voler far rientrare qualcosa in una definizione. Basterebbe chiede a questo piccolo cucciolo indifeso “Ma tu come ti vedi, ti dscriveresti? Perché tu sei tu, diverso dagli altri”, dove “diverso” non é qualcosa di sbagliato, ma un valore aggiunto. Perché “tutti” siamo diversi dagli altri.
    Mi scuso veramente tanto per la mia categoria (sono psicologa e psicoterapeuta, e da un po’ di tempo impegnata nel sociale per la sensibilizzazione sulle tematiche di genere e orientamento sesduale) e per la mia “specie”, quella homo sapiens (gli altri animali sono molto più bravi di noi a gestire queste tematiche), perché nonostante ci siamo evoluti, siamo ancora lontani anni luce dal comprende e accettare.

  8. Ho letto una serie di commenti dove si evidenzia chiaramente una notevole ignoranza su cosa sia l’identità di genere e di conseguenza cosa è il disagio di genere o la disforia di genere.
    Non si può far cambiare l’identità di genere di nessuno imponendo una logica linguistica, in sotanza a parole.
    Se cambierà qualcosa nell’identità di genere di qualcuno adulto e bambino che sia è solo a causa del cervello della persona alla quale appartiene.
    In questa umanità, che io ritengo da 4 soldi il 99% impone a sconosciuti quello che secondo loro è l’identità di genere delle persona che si trova a loro di fronte, un’atto di una violenza e barbarie assoluta, segno di inciviltà e intelligenza pari a 0 .

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *