In questi giorni i giornali stanno raccontando la storia di Demi Minor la detenuta statunitense che “ha messo incinte” le due sue compagne di cella.
Quello che di solito faccio quando leggo una qualsiasi notizia è informarmi di più, approfondire. Così sono andata a leggermi la storia di Demi che vi riporto qui, tradotta dal sito Giustizia per Demi
La storia di Demi
Il nome di Demi non era né era mai stato David. Ma questo era il nome con cui il suo difensore pubblico nominato dal tribunale l’ha chiamata durante il processo. Solo 16 anni e sfinita dalla pressione sociale per essere considerata un ragazzo, le accuse effettive di Demi per omicidio colposo derivavano da un atto di ostilità mal indirizzata in cui uccise il suo ex padre adottivo che colpevolizzava per gli abusi sessuali subiti mentre era sotto la sua cura.
Demi era stata inserita nel sistema adottivo all’età di 8 anni dopo essere stata rimossa dalla sua famiglia perché le percosse che suo padre le dava la rendevano incapace di stare seduta a scuola. Dopo aver rimbalzato di qua e di là, ha finito per essere collocata in una casa adottiva dove ha subito abusi sessuali da un altro figlio adottivo. Quando ha denunciato l’abuso e chiesto di essere spostata, le è stato detto che non c’era posto nel sistema di affidamento per un ragazzo nero.
Dopo aver lasciato quella situazione abusante, ha continuato a rimbalzare in vari luoghi e famiglie, fino a quando alla fine si è trovata a vivere per strada. Tornata nella casa adottiva, ha avuto un alterco con suo padre e lo ha accoltellato a morte.
Datole un difensore pubblico oberato di lavoro, Demi è stata costretta a rinunciare ai suoi diritti di persona minorenne e così è stata condannata a 30 anni con un minimo di 25 anni da scontare in una prigione per adulti nonostante fosse ancora una bambina. Da allora, ha dedicato la sua vita a fare ammenda per le sue azioni e a combattere per migliorare le istituzioni che l’hanno delusa.
Da quando ha ricevuto la sua condanna, Demi si è dedicata a servire gli altri. Durante il suo periodo in prigione, ha ricevuto una formazione paralegale e ha aiutato altre detenute a rimediare alle loro rimostranze. Ha aiutato altre detenute a affermare il loro genere, a ottenere la terapia ormonale sostitutiva e alloggi adatti al genere.
Ha anche costruito ponti con numerosi funzionari e organizzazioni no profit per elaborare una legislazione che affronti il sistema di giustizia minorile ormai disastrato, il sistema carcerario e il sistema di affidamento. Quando Demi sarà scarcerata, intende continuare queste sue lotte attraverso questa associazione “Giustizia per Demi” e dedicare la sua vita alla riforma del sistema di giustizia minorile.
Questa è la storia di una ragazza violata dalla società che non nega il fatto di aver avuto rapporti con le sue compagne come non lo negano nemmeno le due ragazze. Tutte e tre hanno dichiarato che i rapporti sono stato consensuali. Avere rapporti sessuali è una cosa che succede spesso all’interno delle carceri anche se praticare attività sessuale non sarebbe consentito. Ma non è certo un atto grave. Ben più gravi sono le violenze sessuali che subiscono detenute e detenuti da parte di chi lavora all’interno delle carceri. Ma quello diciamo pare essere meno scandaloso di quanto successo adesso.
Le tre ragazze sono state prima messe in isolamento, cosa che peraltro è vietata per le minoranze a rischio e tra le minoranze a rischio ci sono persone incinte e persone transgender. Poi Demi è stata trasferita in una prigione maschile. Questo il suo racconto:
Il 24 giugno 2022 sono stata spedita al Garden State Youth Correctional Facility (struttura maschile), a causa del fatto che ho tentato di impiccarmi nel furgone. Sono stata messa nella zona “suicidi”, prima di arrivare in questa cella. Ho chiesto agli agenti se potevo essere perquisita da una ufficiale femminile perché mi sentivo più a mio agio. Il tenente ha rifiutato e mi ha deriso. Ha detto che se non avessi seguito i suoi comandi e consentito a due ufficiali maschi di spogliarmi e perquisirmi mi avrebbe tagliato tutti i vestiti e mi avrebbe messo in una “cella asciutta” – (questa è una cella in cui non esistono ruberie, non esiste un wc né un lavandino né una doccia). Ho pianto e rispettato i suoi comandi mentre l’ufficiale maschio mi diceva cose che percepivo come sbagliate. Sono stata messa poi in una cella buia.
Successivamente sono stata trasferita nella prigione statale del New Jersey, dove le guardie hanno continuato a chiamarmi col deadname e a darmi del maschile…. Quando sono arrivata al carcere di stato di Trenton, diverse guardie mi hanno perquisito e mi hanno messo in infermeria sotto costante sorveglianza. Ero però costantemente fuori dalla telecamera e una guardia mi diceva “Non me ne frega un cazzo di quello che fai …. non c’è macchina fotografica qui…” “Tutti qui sono uomini, incluso te”. Ogni volta che aprivano la mia porta venivo ammanettata e tirata dagli agenti attaccando una cintura alle manette. Avevo paura di rifiutarmi di parlare, continuavo a tremare perché loro avevano i manganelli
Questo è l’inferno che NJDOC – New Jersey Department of Corrections – vuole farmi passare, questa è la mia punizione per quello che è accaduto oltre 2 mesi fa: hanno violato il mio diritto di essere al sicuro e libera da molestie sessuali, mettendomi in una delle strutture correttivi giovanili più violente. Mentre vivevo qui al GYSC – Gilliam Youth Services Center, sono stata molestata da giovani detenuti ignoranti nei confronti di una persona come me. Sabato stavo facendo la coda per ritirare i miei farmaci e un detenuto mi è passato davanti e mi ha detto “Non sto dietro a nessun frocio” e mi ha sputato. Sono tornata e mi sono lavata i vestiti sapendo in fondo, che non posso e non vivrò così!! Non credo che ci si renda conto del danno psicologico che è stato fatto col trasferirmi da una prigione femminile in una struttura maschile. È duro e, io non so cosa significhi vivere come uomo.
Il fatto che questa prigione non abbia aria, non abbia cavi, non consenta visite video, non abbia gruppi LGBT è incredibile, eppure hanno detto che sono qui per sicurezza, ma dovete capire che la verità è che sono qui in punizione, e questa punizione può uccidermi. Mentalmente non sono me stessa e sto perdendo la mia essenza. La Demi, che vuole truccarsi e uscire con i suoi amici, non è ammessa qui. Hanno detto che posso truccarmi, ma la verità è che sappiamo che è una condanna a morte, causerebbe letteralmente più molestie. Ho accettato di essere in una struttura maschile, ma non ho accettato né accetterò mai di essere qualcosa di diverso da una donna transgender.
Prego che qualcuno senta la mia voce, prego che la punizione finisca e che accada qualcosa per fermare questo abuso, questa è stata una decisione orribile, preferirei rimanere nel rinchiusa dell’EMCF – Edna Mahan Correctional Facility – piuttosto che dover sopportare questo, non sono al sicuro e preferirei essere una detenuta in isolamento presso l’EMCF piuttosto che rimanere qui. Vogliono proteggere la mia sicurezza… hanno detto che sono stata spostata per la mia sicurezza… Ma quando arriverà il momento in cui prenderanno veramente in considerazione la mia sicurezza?
Come donna transgender temo davvero ciò che mi aspetta, è chiaro che il personale ha cercato una sorta di motivo di sicurezza per cacciarmi dall’unica struttura correttiva femminile, mi hanno gettato ai lupi e si aspettavano che mi arrendessi, sono sconcertata e disgustata da questo abuso di potere e posso solo chiedere che il commissario e il governatore mi rimandino indietro. Non merito di essere trattata così.
Mi ci è voluto davvero molto poco per capire la vera storia di Demi Minor e raccontarvela. E nessuno mi paga per farlo. Perché giornalisti e giornaliste pagati/e per riportare la verità invece gongolano di fronte a una notizia di questo tipo, notizia che non sarebbe una notizia se il rapporto e anche la gravidanza fossero avvenuti tra qualsiasi altra persona, nemmeno se fossero frutto di violenza?
Piccola nota finale: caso strano se fate attenzione in questi articoli nel titolo si parla stranamente di “donna transgender”. Non “un trans” come sono soliti i giornalisti. Non si usa il deadname. In questo caso fa comodo specificare che sia una donna trans a caratteri cubitali (infatti poi dentro gli articoli si torna al maschile) per poter avvalere la teoria che una donna transgender può essere un pericolo (tralasciando sempre e volutamente la consensualità di quanto accaduto)