Ogni mattina mi sveglio e mi domando come andrà la giornata. Vivere in una dimensione che non si conosce è una fatica quotidiana che ti mette davanti al nulla e davanti al tutto. Di fronte al fatto di quanto una cosa tanto irrilevante possa diventare tanto condizionante solo perché è parte di una convenzione. Siamo nati pensando di essere maschi e di essere femmine. Quelli della mia generazione almeno. Quelli della mia generazione che erano maschi ed erano femmine. E degli altri poco ci importava, a quelli della mia generazione, diciamoci la verità. Nessuno si è mai fatto due domande su David Bowie, Boy George, Annie Lennox…. Sarà una sorta di contrappasso quello che vivo ogni giorno per non essermi chiesta nulla?
Qualche tempo fa, mia figlio (e giuro che non l’ho fatto apposta a scrivere così…ma lo lascio perché rappresenta alla perfezione il mio stato mentale!) che ormai vive fuori di casa come la bambina che si sente di essere, ha dovuto forzatamente comunicare la sua “biologia”. Nessuno sapeva a scuola del suo essere biologicamente maschio e per quanto noi facciamo tanti discorsi sulla privacy e sul “chi-se-ne-frega-di-cosa-hai-tra-le-gambe” ed effettivamente è così, spesso i primi a cui gliene frega siamo proprio noi. Un po’ perché noi lo sappiamo cosa abbiamo tra le gambe e sappiamo inevitabilmente (e per quanti discorsi filosofici possiamo farci) che non corrisponde a ciò che la gente si aspetterebbe e un po’ perché vorremmo semplicemente essere noi stessi e non dover stare attenti a non fare gaffe e a non tradirci. Vorremmo poter raccontare quell’aneddoto divertente successo anche quando ancora “ero maschio” o vorremmo poter sbagliare declinazione dell’aggettivo senza per questo creare scompiglio. Vorremmo essere così liberamente con chiunque senza doverci sempre domandare se la persona che abbiamo di fronte sia in grado o meno di accogliere la nostra realtà. Io lo so che per molti esiste una questione molto profonda sul “maschile, femminile, pronome non pronome, prima, dopo…” A casa mia no. E’ un minestrone di tutto. Ieri uscendo a portare il cane dico a L. “Io vado, ma tu non puoi guardare gli youtubers e non fare la furba” Poi mi rendo conto che mi è uscito il femminile spontaneamente mentre a casa L. parla di sé al maschile. Allora mi correggo: “insomma non fare il furbo” Mia figlia grande che ormai è una ragazza assolutamente gender non-conforming scoppia a ridere e io prendo la porta dicendo “insomma siate un po’ quel cacchio che vi pare basta che non guardiate gli youtubers!”
La testa mi scoppia. Ho la sensazione di fare una sorta di fisioterapia cerebrale forzata. Una riabilitazione. Come se a 47 anni mi mettessero ad allenarmi per fare il salto in lungo alle olimpiadi, che nemmeno a 17 anni ne sarei stata capace. A volte finisco per non aver voglia nemmeno di chiacchierare, perché chi lo capisce questo “MIX”?
Insomma circa un mese fa a scuola esce che mia figlia è biologicamente maschio. Panico. In realtà non succede assolutamente nulla. Ma il mio imprinting italiano non è facile da eradicare. La paura è insita nel dna. Mio e di L. Piangiamo un giorno intero. Quando finalmente “lui” decide cosa fare e la decisione è dirlo alle sue due migliori amiche che ancora non lo sanno perché lo sappiano da “lei” (del resto a scuola è femmina) io passo ore interminabili a casa messaggiandomi con la maestra che mi tiene informata su come procedono le cose. All’uscita di scuola arrivo tirata a lucido. Non voglio che nessuno si accorga quanto sono stressata e quanto ho pianto dalla paura. Nessuno però mi si fila. A nessuno, qui in Spagna, frega un cavolo che mio figlio sia maschio o femmina o io una madre così o colà. L. esce serena da scuola come nulla fosse.
Chiedo “come è andata?”
“Bene!”
…
“Qualche dettaglio in più?”
“Tipo?”
La sensazione di volerla strangolare è forte, ma non si può.
“Abbiamo parlato e detto che sono un maschio!”
Sono un maschio.
E’ un maschio.
Un breve riassunto: io mi faccio un mazzo tanto, mi trasferisco, la iscrivo a scuola come bambina, cambio il chip ogni volta che esco di casa, a casa al maschile/fuori al femminile, non mi creo amici perché ho sempre paura di tradirlo e svelare il suo “segreto”, e lui/lei….è un maschio.
La chiarezza a un certo punto si fa strada: a mio figlio pesava in Italia non poter essere femmina esattamente quanto gli pesa qui non poter essere maschio. Perché in realtà lui quello che desidera è essere semplicemente se stesso. E basta.
Quanto sarebbe più semplice seguire la strada già tracciata! Quanto starebbe meglio il mio cervello stanco! Quanto sarebbe più facile relazionarsi! Quanto più facile spiegarsi e farsi capire!
O quanto sarebbe più facile dire “Senti tesoro…..prendi una decisione su che cosa tu sia perché mamma sta uscendo di cervello….” Ma chi ci dà il diritto di mettere fretta: l’essere genitori? Eppure l’altro dubbio in un angolino resta: “dovrei forse, invece, proprio perché genitore, aiutarlo a uscire dal dubbio? Prendere io una posizione, sicura, ferma, decisa, in modo che anche lui si senta così al riguardo?”
ps: solitamente a questo punto scatta la polemica:
ma lo vogliamo lasciare stare questo bambino ché lui sa benissimo di essere maschio infatti lo dice sia qui in questo “racconto” sia nei video che abbiamo visto? Vogliamo smettere di appiccicargli etichette e convincerlo di essere qualcosa perché ora va di moda essere transgender o non binari o che ne so?
Ma il punto signori è un altro. Il punto non è chi sia mi* figli*. Il punto è chi siate voi. Chi siamo noi genitori. Chi siano tutti quelli che si arrogano il diritto di poter giudicare gli altri. Di decidere chi sia cosa e fino a quando possa esserlo, entro quali confini ecc. Chi siamo noi adulti, maturi, genitori, che pensiamo che solo in quanto tali possiamo fare e disfare secondo la nostra personale visione.
Prima di giudicare e pensare di sapere, pensiamo se davvero nel nostro profondo noi sappiamo chi siamo e facciamolo con una discreta dose di onestà intellettuale. E pensiamo che utilità abbia filtrare una esperienza altrui attraverso le maglie di quella che è stata la nostra vita. Domandiamoci quanto quella persona abbia attraversato e sofferto per arrivare dove è. Coltiviamo una piccola piantina di empatia. E come dice Saverio (Tommasi): cerchiamo di essere ribelli praticando gentilezza.
4 thoughts on “maschio e/o femmina?”
Sono una tua silente lettrice. In questi mesi, leggendoti, ho pensato che tu avessi scelto la Spagna perché là tu* figli* potesse vivere liberamente la sua natura transgender alla luce del sole anche dentro scuola come in casa, e invece si viene a scoprire che in praticalo sa solo la maestra, e che con tutto gli altri deve fare coming out esattamente come dovrebbe farlo qui in italiana, visto che non lo sa nessuno.
Proprio gran bel libero da stereotipi che è. Ma poi, scusa, non capisco come durante l’ora di ginnastica la cosa riesca a rimanere segreta.
Io non ho mai detto che mia figlio sia libero da stereotipi. Tutt’altro, dico sempre che paradossalmente riafferma in maniera quasi imbarazzante lo stereotipo della femmina lustrini e fiocchetti e arcobaleni e unicorni. Anche io credevo che da subito avrebbe vissuto liber* qui in Spagna. Invece era terrorizzat*. Perché in realtà aveva sofferto più di quanto io credessi: le critiche, i giudizi, le domande, il doversi sempre giustificare. Per tutta la sua vita. Temeva che sarebbe tutto rincominciato da capo così mi ha chiesto per favore di no tradirl*, perché voleva per un po’ stare seren*. E chi poteva biasimarl*? A scuola lo sapevano tutti gli adulti, professori, segretari, addetti alla mensa, insegnanti di attività extra scolastiche e lo sapevano due suoi compagni di classe e alcuni genitori e alcuni bambini italiani che frequentiamo ma che sono in classi differenti. Nessuno ha mai sentito l’esigenza di spettegolare raccontandolo ad altri. Perché così tanto è una bambina che anche chi lo sapeva non ci faceva nemmeno caso. Piano piano però il segreto con chi non sapeva si faceva sempre più pesante perché anche quella non era libertà. E lo sentivo io ma lo sentiva soprattutto mi* figli*. Ecco perché in realtà è stata una manna quando un giorno uno di quelli che sapeva lo ha detto alla bambina pettegola di turno e in poco è passato ad altri. Allora abbiamo pensato a cosa fosse giusto fare. Mi* figli* ha solo voluto dirlo personalmente a chi era più affezionato. Per gli altri, ha detto, non importava. Se lei avesse una vagina con una qualche differenza dalla norma si sentirebbe in dovere di comunicarlo a tutti? Non credo. Il punto è chi ci sentiamo di essere e non come siamo fatti anatomicamente. Soprattutto a 10 anni. La differenza del caming out, come dice lei, tra qui e l’Italia è che in Italia da subito nessuno avrebbe rispettato il suo essere, in Italia se un bambino di 9 anni o un genitore lo avesse saputo in quanti nano secondi lo avrebbero saputo tutti? In italia da subito avrei dovuto giustificare e informare. Qui invece bambini di 6,7,8,9,10,11 anni erano più interessati a giocare che a spettegolare perché hanno a monte genitori più interessati a vivere la propria vita che quella degli altri. Non so perché LEI debba capire come facesse all’ora di ginnastica. Forse Rocco Siffredi potrebbe avere un problema al riguardo ma un* bambin* di 10 anni no. Però lei tocca uno dei tasti dolenti di tutti i bambini transgender: come andare al mare? Come cambiarsi quando in compagnia? Come fare in gita scolastica? Che fare quando, soprattutto le bambine, vanno in bagno tutte insieme? Ma vogliamo fargliene una colpa che questo sia un pensiero per loro? o vogliamo aiutarli a vivere sereni? Io credo che soprattutto a 10 anni si abbia il sacrosanto diritto di avere rispettati i propri tempi e i propri modi. E io ho semplicemente rispetto quelli di mi* figli* e ora ne sono felice perché avendo agito così tutti hanno incamerato il dato che sia una bambina e a nessuno interessa che la biologia non corrisponda. E probabilmente non gli sarebbe interessato nemmeno all’inizio visto le reazioni che hanno avuto sapendolo: e cioè NULLA. Tutto è continuato come nulla fosse. Non so se sbaglio a leggere astio nella sua ultima frase. Io non sono qui a insegnare nulla a nessuno ma solo a raccontare la nostra storia perché possa essere di aiuto a chi ne vive una simile. Questo non vuol dire né che sia verità assoluta né che sia una passeggiata. ma è così e così la prendiamo. Giorno per giorno con quello che porta e mi dispiace davvero quando vedo adulti cogitanti subito pronti a vedere il male invece che cercare di comprendere. Ma magari mi sono sbagliata e la sua non era una critica. Del resto anche io, come L., ne ho ricevuto talmente tante che sono leggermente scottata.
Scusi ma volevo scrivere “Proprio gran bel [paese] libero da stereotipi che è” criticando la Spagna, non su* figli*, perché qui mi sembrava descritta come una sorta di paradiso, con quella legge, per i bambini transgender, mentre invece in questo post ho capito che continuavate a tenere tutto nascosto come se foste comunque in Italia. Dal che la domanda , su che senso aveva cambiare paese per poi ritrovarsi nella stessa situazione, ed esaltare al secondo spalando melma sull’Italia.
Comunque anche dalla sua testimonianza continua comunque a sembrami strano che un paese latino sia così libero su questo argomento.
Alida c’è una piccola differenza che non hai menzionato nel tuo racconto, che qui in Italia il preside ha preso le difese dei bulli, consigliando il bambino di non venire a scuola con magliette fucsia mentre in Spagna la parte difesa dalle autorità scolastiche è il bambino. Scusa se è poco.